EVENTI

MEMORIA ETERODOSSA – Esposizione di Giuseppe Fabris – Castello dei Doria

Dal 7 Agosto al 19 Settembre

“Estratto dal saggio critico filosofico di Nicola D. Angerame”

 … Qui serve richiamare il discorso fatto sullo sguardo della gatta di Derrida: nei ritratti che Fabris dedica ad altrettanti musi di elefanti1, lo sguardo di ogni singolo pachiderma diventa il luogo di una origine (un’anima?), forse perduta e che sarebbe bene ritrovare. Quello sguardo ti fissa dal punto più esteticamente distante, quello della tela (anch’essa silenziosa come un animale) che, rispetto alla prossimità della gatta vivente (e sottilmente rumorosa) di Derrida, è maschera ma è anche imitazione ultra reale (grazie al potere della pittura) di uno sguardo reale che ci ri-mette al mondo nella posizione ontologicamente più giusta (potere del ménage à trois col dio e l’animale). L’esistenzialismo sartriano individua l’esistenza come un peccato originale: oggi, il nostro stesso esistere è divenuto colpa nella nuova forma del consumo delle risorse di Gaia, di cui l’animale è parte integrante. E se questo peccato fosse la conseguenza di un peccato originale verso l’animale, di una sua impropria oggettivazione?

Allora lo sguardo diventa decisivo. Le tele di Fabris, dalle quali altrettanti sguardi di elefanti ci colgono colpevoli ribaltano su di noi il nostro stesso guardare. Finalmente io mi posso guardare (percepire, ri-conoscere2) attraverso l’animale che mi guarda. Derrida sarebbe felice di visitare una tale mostra, e anche noi: come sollevati, perdonati e rimessi al nostro posto, vaghiamo nella mostra tra gli sguardi incredibilmente umanizzati e umanizzanti degli elefanti di Fabris. Ma qual é il luogo in cui siamo posti da questa mostra?

La storia della pittura e perfino l’arte contemporanea sono giochi di sguardi3. In effetti, l’arte è intessuta di sguardi: dal mito di Medusa (spaventosamente ritratta dal Caravaggio) allo sguardo di Paride che compie la scelta, dalla riflessione sullo sguardo di Giulio Paolini in Giovane che guarda Lorenzo Lotto allo sguardo marmoreo di Marina Abramović in The artist is present. L’arte ci guarda più che essere guardata. Nel caso di Fabris è attraverso di essa che l’animale ci restituisce lo sguardo. Ma l’animale ci vede? Ci permette di essere, sì, ma ci riconosce? Domanda aperta…. Lui ci ri-conosce, certo, ma sempre di nuovo ogni volta che guarda (coazione a guardare): il suo sguardo è silente, senza parola, pensiero o concetto che provvedano ad armarlo di senso. Meglio così poiché la parola, quando è parola d’uomo a proposito dell’animale, sottrae il senso, rapina il senso dell’esistere animalesco e ci sovrascrive un senso umano e manipolatorio. La povertà dell’animale, la sua debolezza (cfr. Vattimo), sono la sua ricchezza. L’animale è ricco di povertà. L’animale è ricco di mancanze, mentre l’uomo è povero di ricchezze. La regalità degli elefanti ritratti da Fabris, che come un novello Van Dyck (che dipinge ritratti memorabili della nobiltà genovese) si pone di fronte e ritrae la nobiltà del mammifero terrestre più grande e lento, dell’animale dotato di memoria prodigiosa, una memoria eterodossa rispetto all’ortodossia di una memoria umana sul cui modello riconosciamo, valutiamo e valorizziamo (impropriamente e illegittimamente) la “memoria” di ciascun altro animale.

Note.
1Dall’enciclopedia Treccani: muso è il termine che designa la parte anteriore della testa di qualunque animale e può essere esteso metaforicamente all’uomo.
2Sia nel senso del conoscere nuovamente, in una ripetizione del conoscere, sia nel senso di una riconoscenza dei diritti e dei doveri legati alla propria posizione esistenziale di “dominatore”, di colui che è chiamato a prendersi cura della debolezza ontologica dell’animale, e del dio, che sono nostri vicini, il nostro prossimo…
3A tal proposito si legga John Berger, Questione di sguardi, Il Saggiatore, 2015

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